Σάββατο 18 Απριλίου 2015

L'AVVENTURA VENEZIANA DELLE PAROLE 'COMUNITÀ', 'REPUBBLICA', 'SERENISSIMA', 'DOMINANTE', 'CITTANTINO', 'REGNO'







Studi Veneziani 25 (2012), pp. 677-689.
 
L’AVVENTURA VENEZIANA DELLE PAROLE
‘COMUNITÀ’, ‘REPUBBLICA’, ‘SERENISSIMA’,
‘DOMINANTE’, ‘CITTADINO’, ‘RENGO*

Yannis Yannopoulos

 
 
 Quello che conta non è Shakespeare,
                                                   ma i commenti a Shakespeare
                            Anton Čechov

A partire dalla metà del Novecento, alla tradizionale storia dei concetti filosofici, di matrice soprattutto tedesca, fece seguito una nuova storia dei concetti, che si diffuse, oltre che in Germania, nei Paesi francofoni, anglofoni e ispanofoni. Le sue caratteristiche principali andavano ravvisate nel superamento dei limiti della filosofia, nell’interesse per la storia della cultura, per le scienze sociali e per le scienze umane, nell’approccio critico ai concetti in rapporto al loro contesto storico.[1] Come osserva Hans-Georg Gadamer, che ne fu uno dei teorici, «chi non voglia lasciarsi dominare dal linguaggio, ma si sforzi di acquistare una fondata consapevoleza storica, si trova costretto ad affrontare tutta una serie concatenata di problemi sulla storia delle parole e dei concetti».[2] Tenuto conto di tali premesse, nelle pagine che seguono, verranno presi in esame alcuni termini fondamentali della storia veneziana.

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1. ‘Comune’ / ‘Comunità
Nell’Italia centrale e settentrionale, anche nell’Europa occidentale e centrale, dalla fine dell’undicesimo e fino al quattordicesimo secolo, tutti i gruppi sociali in ogni ‘città’ unirono le proprie forze allo scopo di affrancarsi dal dominio imperiale tedesco. La possibilità dei maschi di una città autonoma di partecipare agli organi collegiali di governo ed elegersi alle diverse cariche, cioè di essere ‘cittadini’ veri, fu espressa con il termine latino ‘commune’, in italiano ‘comune’, o anche con il termine affine di ‘respublica’.[3] Il termine ‘comune’ compare nelle fonti ufficiali verso la fine dell’undicesimo secolo nella forma ‘commune’ nella città francese di Le Mans (1070) e nella forma ‘communitas’ nella città italiana di Cremona (1078).[4] In una traduzione latina, risalente all’incirca al 1143, dell’opera di Aristotele Etica Nicomachea, il termine greco ‘politeia’ (reppublica, regime democratico) fu tradotto con ‘communitas’.[5]
Venezia, pur non seguendo in pieno tali campiamenti istituzionali, non rimase immune dall’utilizzo della terminologia e dalle istituzioni dell’epoca. Infatti, a partire dal 1143 si chiamava ‘commune Veneciarum’ e accanto al doge fece la sua comparsa il consiglio dei sapienti (‘consilium sapientum’), i cui decreti, e in particolare l’elezione del nuovo doge, andavano ratificati dall’assemblea popolare (‘concio’, ‘arengo’).[6] Nel 1297 tuttavia, dopo la chiusura (‘serrata’) del Maggior Consi­glio, il regime veneziano assunse un carattere prettamente aristocratico protrattosi cinque secoli, fino alla caduta definitiva dello Stato nel 1797, benché la pratica della ratifica popolare (‘collaudatio’) all’elezione del nuovo doge si prolungasse per oltre un secolo per essere soppressa nel 1423, anno in cui Venezia cessò di essere denominata ‘commune’.[7] Gli organi di

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governo della città dominante, tuttavia, quando si rivolgevano a una città sottomessa, per dare l’impressione che nulla fosse mutato, non hanno smesso di usare il termine identico ‘comunità’, benché il ‘consiglio della città’ non aveva poteri governativi come prima e non rapresentava tutte le forze sociali della città. Solamente per ‘statuto’ emanato dal senato veneziano i maschi membri di un numero ridotto di famiglie in ogni città sottomessa erano riconosciuti come l’‘ordine dei cittadini’ e come ‘consiglio dei cittadini’.
Ogni città sottomessa, centro amministrativo periferico dello Stato, per darsi l’impressione che nulla avesse cambiato, non cessò di nominarsi ‘comunità’ dalle autorità veneziane, e continuò a amministrarsi da un ‘rettore’ (di solito chiamato ‘console’ o ‘podestà’), proprio come prima della conquista, quando fosse ancora autonoma. Il ‘rettore’, tuttavia, non veniva nominato dal consiglio della ‘città’ come prima. Era ‘nobile veneto’ scelto dal Maggior Consiglio di Venezia di cui era membro anche lui. Lo eleggeva come ‘rappresentante’ dello Stato per un arco di tempo determinato, di solito un biennio. Un documento ufficiale, la ‘commissione’ del Senato veneziano al rettore, ne stabiliva le prerogative amministrative e giudiziarie. Il ‘consiglio della città’ non aveva più, come al tempo dei ‘Comuni’, poteri governativi. Conservava soltanto responsabilità locali e le decisioni da esso assunte erano prive di valore se alle sedute non era stato presente il rettore. La ‘libertas’, concetto equivalente a quello di indipendenza, finché la città era stata un ‘Comune’, era perduta. Criterio di accesso al consiglio di un uomo nuovo erano le tre generazioni, i ‘tre gradi di civiltà’, nel senso che il cantidato, come pure il padre e il nonno, dovevano avere la ‘città’ luogo di residenza, e nessuno dei tre doveva aver mai esercitato alcun mestiere manuale (‘arte mecanica’). Erano le autorità veneziane a sceglierlo, di regola dopo il parere positivo espresso dal ‘consiglio dei cittadini’. La decisione era soggetta a ra-
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tifica del senato. I membri e i loro discendenti costituivano nel loro complesso, a vita, il ‘consiglio generale’ della città. Questo si riuniva una volta l’anno per eleggere il consiglio composto da un numero ristretto di membri, ad es. 150.
L’esistenza del consiglio dei cittadini, che esercitava le funzioni cedute da Venezia, offriva l’illusione che le procedure comunali / repubblicane continuassero a essere in vigore, benché fossero molto diverse da quelle dell’epoca dei ‘Comuni’ o da qualsiasi altra struttura che si possa considerare una comunità. Il termine ‘comunità’ sopravvisse con un significato improprio nell’intento di assimilare il nuovo regime a quello comunale. L’esistenza di tre ‘ordini’ istituzionali, con a capo il primo, quello dei ‘nobili veneti’, l’unico autorizzato a modellare tali istituzioni, l’esclusione del secondo e del terzo dalle cariche di governo, così come l’esclusione del terzo dai consigli dei centri periferici dello Stato, cagionò la soppressione dei precedenti istituti comunali nelle città sottomesse. Venezia permetteva soltanto la funzione di ‘comuni rurali’ con prerogative piuttosto differenti da regione a regione. Ad es., nel distretto di Padova erano vasti, mentre a Creta e a Zante rudimentali.
La resa letterale in greco del termine ‘comunità’, quando quest’ultimo concerne ‘città’, ‘quasi città’ (: ‘terre’ nelle fonti) o semplici ‘castelli’ della terraferma veneta o di qualsiasi altro luogo, con il termine greco ‘koinotēs’ (: comune), il quale nella storiografia greca ha una lunga tradizione, è fonte di malinteso, oltre che di connotazioni emotive e ideologiche alquanto distanti dalla realtà. In ciascun centro distrettuale il ‘consiglio dei cittadini’ affrontava le questioni locali secondo il suo punto di vista, in primo luogo per soddisfare i propri interessi. Venezia adattò alle proprie esigenze il regime sussistente prima della conquista. in ogni centro periferico l’ordine dei cittadini (per eccezione in ogni centro periferco di Candia l’ordine dei nobili veneti e cretesi) e il loro consiglio costituiscono istituzioni conformi a quelle esistenti a Venezia.[8]

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2.Repubblica’, ‘Serenissima Repubblica’, ‘Dominante’
Alcune città dell’Italia centrale e settentrionale, quali Venezia, Firenze e Milano, nel corso del Quattrocento e del Cinquecento si espansero con la forza delle armi, mentre quelle tedesche con strumenti politici. Essendo ‘dominante’ ciascuna di queste città italiane era e restava Capitale di Stato, mentre quelle tedesche si trovavano sullo stesso piano delle città annesse.[9] Al contrario, nelle città italiane sottomesse non entrò mai in vigore un regime di vera parità. Nelle città italiane dominanti soltanto i cittadini veri e propri godevano dei diritti politici, e si comportavano in modo più o meno palese come padroni nei confronti di quelle sottomesse. In tal modo, la loro identità di veneziani, fiorentini ecc. ne usciva rafforzata, così come, peraltro, quella delle popolazioni sottomesse, nella maggior parte dei casi in senso negativo, dal momento che erano stati esclusi dalle procedure che riguardavano gli affari statali e dalle decisioni che prendeva la città Capitale.[10]
  A partire dal XV secolo, a Venezia, i nuovi termini ‘dominium’, ‘Signoria’,[11] ‘Serenissima Signoria’ e ‘Serenissima Repubblica’ indicavano «un particolare organismo, avente determinate funzioni costituzionali»[12] ed erano equivalenti al nuovo significato che la parola status / stato (situazione) assunse, più tardi, ossia stato. Venezia, come ‘Serenissima Repubblica’ (‘Serenissima’ si nominò anche Genova dal 1551 grazie a un decreto imperiale), o semplicemente la ‘Serenissima’ per antonomasia, propugnava e imponeva all’interno del suo dominio la concezione fortemente ideologica che fosse Stato governato con eunomia avente alto senso di responsabilità e di giustizia alle sue relazioni cogli altri Stati, le città sottomesse e i suoi sudditi. questi ultimi, così come i consigli cittadini dei centri periferici, si potevano rivolgere alle autorità veneziane, sia locali sia centrali, per chiedere la promul-
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gazione di eque sentenze giudiziarie o amministrative. Tuttavia, fino a che punto Venezia come Stato, lungo tutti i secoli della sua durata, fosse ben governata e fino a che punto gli organi competenti prendessero decisioni con coscienza limpida e serena, ovviamente non si può dire con un sì o no. I sudditi, quando presentavano le proprie istanze alle autorità veneziane, chiamavano Venezia ‘Serenissima Repubblica’. Ma quando Cesare Beccaria negli anni sessanta del Settecento pubblicò il suo celebre Dei delitti e delle pene, nell’intento di sottoporre a critica feroce i sistemi giudiziari della sua epoca, egli aveva in mente soprattutto come caso negativo l’esempio veneziano.[13] Pertanto, quando gli studiosi oggi scelgono la denominazione antonomastica di ‘Serenissima’ per denominare Venezia e lo Stato veneziano, per ragioni soprattutto di varietà stilistica, essi ripropongono, sia pure senza volerlo, una formulazione ideologica che habbia un giudizio forte di valore, ripetendo a distanza di secoli, in modo anacronistico, l’ideologia veneziana dominante. Così, senza una presentazione minima del regime istituzionale vigente, il destinatario del messaggio non sospettoso assume un atteggiamento inconsciamente favorevole a tale regime.
Lo stesso accade con il termine ‘repubblica’, la quale può essere intesa come sistema politico in cui tutti direttamente o indirettamente partecipano alla presa di decisioni. Per ciò, senza nessun riferimento al significato vero della parola, in greco ‘repubblica’ viene tradotta con ‘dēmokratia’ (democrazia). Il termine ‘repubblica’ (dal latino ‘res publica’) assunse il suo significato originario nell’antica Roma, ove il potere era in qualche modo suddiviso tra il Senato e il popolo («senatus populusque romanus»). Nell’antica Repubblica romana, peraltro, gli aspetti democratici non erano quelli prevalenti. L’evidente supremazia del ‘Senato’, infatti, conferiva a tale regime un carattere aristocratico. Al contrario, nel tardo Medioevo e agli albori dell’età moderna, all’epoca dei ‘Comuni’ e anche più tardi in alcune città, ad es. a Firenze, a prevalere furono veri e propri istituti democratici. Nel 1438 Gianfrancesco Poggio Bracciolini, noto intellettuale al servizio di Firenze, scriveva in proposito al duca di Milano:
La nostra Reppublica non è governata né da alcuni cittadini, né dagli aristo-
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cratici, ma tutto il popolo è ammesso con uguale diritto alle cariche pubbliche; questo fa sì che i cittadini grandi e i cittadini semplici, i nobili e i non nobili siano uniti nel servire la libertà e per difenderla non cercano di evitare le spese, né temono le fatiche».[14]
I criteri per la scelta di un candidato alle cariche avevano più a che fare con il riconoscimento, il prestigio (dignitas) e con la virtù, che con la ricchezza o con il lignaggio del cittadino.[15]
Nel contempo, sin dall’inizio del Trecento il campo semantico del termine ‘repubblica’ si è ampliato. Assunse significati più vasti e generici di quelli originari, fino a indicare qualsiasi sistema politico, compresa la monarchia. Dicevano «res publica imperii», «res publica regni nostri».[16] Bartolo Cavalcanti (1503-1562), studioso di Platone, di Aristotele e di Polibio, nella sua opera Trattati sopra gli ottimi reggimenti delle repubbliche antiche e moderne chiama ‘repubbliche’ i diversi regimi politici (forme di governo) descritti da Platone e ‘repubbliche miste’ i regimi della sua epoca.[17]
 Il termine ‘repubblica’ continuò a essere usato anche a Venezia, ove soltanto i ‘nobili veneti’ godevano dei diritti politici veri e propri. In qualche modo, esprimeva il carattere peculiare del sentimento repubblicano veneziano: i ‘nobili veneti’, nelle cui mani era concentrato per intero la facoltà di governare, eleggevano ai consigli di governo e alle cariche pubbliche soltanto loro pari mediante votazione, ossia per le procedure comuni nei regimi democratici. Ciononostante, il regime istituzionale veneziano non era democratico ma bensì aristocratico. Per ben cinque secoli, membri del supremo organo governativo dello Stato, del ‘Maggior Consiglio’, furono soltanto i nobili, ossia pochi abitanti della città, da un minimo di 1.000 a un massimo di 2.500 a seconda dei periodi. E soltanto i membri del Maggior Consiglio potevano aspirare ad accedere ai consigli governativi e a tutte le altre cariche (‘magistrati’, comunemente ‘offici’) di Venezia e dei distretti periferici. Gli altri 'cittadini', sia nella città dominante sia nei centri dei distretti (territori e provincie) dello Stato, non avevano
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delegati nel Maggior Consiglio e non venivano eletti a nessuna carica destinata per i ‘nobili veneti’ membri del Maggior Consiglio di Venezia, neppure la più insignificante, né nel centro né nei distretti. Non a caso, secondo Gasparo Contarini, il teorico più autorevole, la forma istituzionale dello Stato veneziano era «mista»:[18] il doge costituiva l’elemento monarchico, il Senato quello aristocratico e il Maggior Consiglio quello democratico/repubblicano. In modo analogo, lo studioso nostro contemporaneo Matteo Casini osserva che furono gli autori veneziani, e non solo, di quell’epoca a propagandare il mito rinascimentale della ‘Serenissima Repubblica’, come modello ideale dell’esperienza politica e istituzionale[19]. Ecco perché è del tutto fuorviante tradurre in greco l’espressione ‘Repubblica di Venezia’ come ‘dēmokratia tēs Venetias’, e ancor più lo è denominarla ‘Galēnotatē Dēmokratia’ (‘Serenissima Democrazia’, nel senso stretto di ‘repubblica’).
Talora Venezia, anche in questo caso per antonomasia, viene denominata ‘Dominante’. Il termine in alcuni casi si usa in modo che fa sfugire la realtà. Non si da la possibilità di prendere coscienza che dominante fosse la città (l’ordine dominante dei ‘nobili veneti’), che aveva il potere di governare luoghi e uomini. Le denominazioni per antonomasia hanno in genere un suono gradevole, spesso però risultano fuorvianti per il destinatario del messaggio, quando l’utilizzo del termine e il contesto globale bloccano la possibilità di capire il peso di tale dominio.
A maggior ragione, i consigli cittadini dei ‘territori’ del Peloponneso nel trentennio 1685-1715 o il consiglio dei cittadini di Zante nel Settecento esageravano nel pretendere che Venezia riconoscesse i suoi terittori come ‘repubbliche’, in virtù del fatto che lo stato veneziano li assegnò il diritto di prendere decisioni per questioni strettamente locali.[20] Oltre alle altre argomentazioni, le competenze dei consigli cittadini nei distretti periferici non erano sufficienti a giustificare l’uso di questo termine. Infatti, anche quando le autorità veneziane non riuscivano a esercitare con efficacia il potere amministrativo e giudiziario, i suddetti consigli non per questo cessavano di essere or-
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gani distrettuali soggetti alla città dominante, privi di giurisdizioni governative. In altre parole, non si trattava di regimi autonomi dotati di poteri di autogoverno, di istituzioni comunali / repubblicane degne di questo nome. Lo stato veneziano non era uno stato federale moderno.

3. ‘Cittadini
Fino al 1297, anno della serrata del Maggior Consiglio, ogni veneziano, grazie ai privilegi di cui godeva, se era veneziano vecchio o residente in città da molti anni, era ‘cittadino’ (‘civis’), dal momento che partecipava all’assemblea (‘concio’ o ‘arengo’) del ‘comune’. Questo corpo non equivaleva all’assemblea del popolo (‘ekklēsia tou dēmou’) nell’antica Atene, ove venivano assunte le decisioni finali. A Venezia l’assunzione delle decisioni politiche spettava agli organi dello Stato e l’assemblea aveva un carattere più che altro formale. Tuttavia, dal momento che la sua convocazione veniva sia per la ratificazione (‘collaudatio’), allo scopo di garantire la maggior legittimità possibile alle decisioni, sia l’assunzione di impegni, tutti i gruppi sociali della ‘città’ erano coinvolti in qualche modo nella gestione della res publica.
Dopo il 1297 tuttavia, e di più nei decenni successivi, benché l’assemblea popolare fu formalmente soppressa soltanto nel 1423, più perché ritenuta ormai un fastidio che a causa dei reali poteri di cui godeva, in modo chiaro ormai veri ‘cives’ / ‘cittadini’, come si compiacevano di sostenere loro stessi, con il diritto attivo e passivo di elezione alle cariche pubbliche e di formare le istituzioni, furono soltanto i membri del Maggior Consiglio. E benché a partire dalla seconda metà del Duecento era prassi che il titolo di ‘vir nobilis’ fosse concesso soltanto a coloro che ricoprivano cariche pubbliche (secondo la tradizione bizantina) o feudali (secondo la tradizione longobarda), a partire dal 1297, o meglio dopo il 1323, tutti i membri del maggior consiglio assumevano il titolo perpetuo di nobile, esteso a tutti i componenti, maschili e femminili, e ai discendenti delle rispettive famiglie. Il titolo era all’altezza del loro ruolo politico e corrispondente in tutto con la denominazione e le coeve gerarchie sociali vigenti in Europa. In seguito alla serrata del Maggior Consiglio, avvenuta nel 1297 e completatasi negli anni successivi, i ‘nobili veneti’ si imposero dal punto di vista giuridico e sociale come ‘ordine’ (gruppo sociale esteso con privilegi
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precisi ereditari) dominante e la società della città di Venezia e di tutto lo Stato assunse una struttura rigidamente gerarchizzata.[21]
A partire da quel tempo, a Venezia, i ‘nobili’ – ossia, una percentuale assai ridotta degli abitanti della città – salvaguardarono pienamente le prerogative legate al loro status di cittadini. Quanti in futuro sarebbero stati definiti ‘cittadini’, si distinguevano in gruppi diversi in base ai privilegi concessi loro dai nobili. Costoro, a dispetto del nome, non avevano il diritto attivo e passivo di elezione alle cariche di governo o, meglio, non avevano diritti politici completi. I nomi hanno la loro storia e a volte continuano a essere utilizzati anche quando se ne modifichi il contenuto.
Nello Stato veneziano dopo il ‘primo ordine dei nobili’, tutti insieme i diversi gruppi di ‘cittadini’ costituivano il ‘secondo ordine dei cittadini’ e, dopo di loro, tutto il popolo, la maggior parte della popolazione in Venezia e nella periferia veneziana, fosse il ‘terzo ordine del popolo, dei popolari’. I gruppi del ‘secondo ordine dei cittadini’ erano quattro, i seguenti: i ‘cittadini originari veneti’, cioè le famiglie venete che, pur distinguendosi da molte altre, non furono giudicate degne di accedere al Maggior Consiglio; tali famiglie, dal punto di vista delle prerogative economiche, erano di pochissimo inferiori ai nobili, così come del resto erano di poco superiori al secondo gruppo di cittadini aventi il diritto di commerciare dentro e fuori Venezia (‘cittadini de intus et de extra’). Un terzo gruppo di cittadini era formato da quanti avevano il diritto di commerciare soltanto all’interno di Venezia (‘cittadini de intus tantum’). Infine, il quarto gruppo era quello costituito da quan-
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ti avevano avuto accesso come cittadini, all’inizio o in un secondo tempo, ai consigli dei centri distrettuali periferici, di ‘città’, ‘terre’ o ‘castelli’ che fossero capitali di territori e di provincie veneziane. Dei gruppi suddetti, a partire dal Trecento, i ‘cittadini originari veneti’, più lentamente all’inizio e poi sempre più rapidamente, acquisirono il privilegio di accedere all’apparato burocratico veneziano e diventare segretari dei più alti consigli governativi dello Stato. Diverse erano le competenze dei membri dei consigli distrettuali: potevano riunirsi e prendere in consiglio solo sotto la presidenza del ‘rettore’ che era sempre ‘nobile veneto’ decisioni valide per la risoluzione di problemi locali, le quali Venezia poteva respingere; avevano pure il diritto di trasmettere le proprie istanze al centro per mezzo di ambascerie e di eleggere loro pari in cariche di giurisdizioni locali (non governative) espressamente previste dall’atto di dedizione o da statuto posteriore del Senato. Questi posti erano i più bassi del sistema amministrativo statale. Venezia non aveva mai attribuito il titolo del ‘nobile’ ai ‘cittadini’ del centro e dei centri distrettuali periferici. Le famiglie dei centri distrettuali che potevano vantarsi di essere ‘nobili’ prima della conquista veneziana della loro ‘città’ e i cittadini ai qualli era stato attribuito il titolo onorifico di ‘conte’ per meriti speciali o in cambio di una somma specifica, dopo aver ceduto una notevole estensione di terreno allo Stato, che in seguito venne loro assegnata a titolo di possesso feudale, partecipavano in modo paritario ai consigli insieme agli altri ‘cittadini’. Ciononostante, in ogni distretto tutti i ‘cittadini’ insistevano a presentarsi come ‘nobili’. Ma per quanto desiderassero con tutte le loro forze l’attribuzione del titolo, i ‘nobili veneti’ si rifiutarono strenuamente fino alla fine, fino al 1797, di concedere loro per ‘statutο’ un titolo adatto per uomini liberi che avevano il privilegio di partecipare al governo dello Stato. Per questo i ‘cittadini’, nonostante il nome, non riuscirono mai ad acquisire reali prerogative politiche e nobiliari.
Nella bibliografia non è tanto chiaro che cosa erano precisamente i ‘cittadini’ delli centri periferici veneziani. Sono state avanzate tre proposte diverse: gli studiosi rimasti fedeli alla tradizione creata dagli stessi ‘cittadini’ dei centri periferici, nelle fonti hanno letto, e leggono ancor oggi, la parola ‘cittadini’ interpretandola senza alcuna esitazione nel senso di nobili, meno arbitrariamente di quanto si pensi, dal momento che esistono fonti prodotte dai ‘cittadini’, nelle quali si au-
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todefiniscono ‘nobili’. Altri invece in Grecia, traducono ‘politēs’ (‘cittadino’), sebbene oggi il significato del termine greco, anche dell’italiano, sia diverso. Una terza categoria di studiosi preferisce affrontrare i ‘cittadini’ quasi come ‘borghesi’.
In tutti e tre i casi ci troviamo di fronte a un problema. I ‘cittadini’ non si possono considerare ‘nobili’, benché essi stessi ci tenessero a essere considerati tali. Né veri e propri ‘cittadini’, come li intendiamo oggi. Infine, anche il termine ‘borghesi’ non è adatto a descrivere la realtà, in quanto rinvia a una specifica ‘classe’ sociale, le cui caratteristiche non coincidono con l’‘ordine dei cittadini’. Il nucleo di quest’ultimο era costituito da possessori di ‘feudi’, o almeno da proprietari di beni immobili rurali e urbani, di persone che di solito evitavano l’investimento dei propri capitali in iniziative imprenditoriali a considerevole rischio. E per quanto riguarda quelli che si possono considerare dotati di caratteristiche borghesi, come degli ‘avvocati’, dei ‘notai’, dei ‘medici’, degli ‘imprenditori’ e altri, non erano annoverati tra i membri più forti del loro ‘ordine’ e, quel che più conta, non avevano sviluppato qualche ‘coscienza di classe’ particolare, poiché volevano chiamarsi ‘nobili’ e non ‘cittadini’. Infine, la traduzione in greco del termine ‘cittadino’ letteralmente, come pure l’uso in italiano senza nessun riferimento al suo diverso significato odierno, non è una soluzione soddisfacente. Necessaria è la determinazione intera del ruolo politico e sociale del ‘cittadino’ come membro del ‘secondo ordine’ nello Stato veneziano, anziché renderlo semplicemente con il termine greco ‘politēs’ (: ‘cittadino’) nel senso moderno, che resta nel vago e genera perplessità che cosa erano questi...‘cittadini’.
I membri di un’altro gruppo sociale, che tipicamente appartenevano al ‘terzo ordine’, appaiono nelle fonti del Seicento e Settecento come ‘civili’. Uomini nuovi, dottori in giurisprudenza o in medicina, impreditori e altri, vivendo in un livello abbastanza alto in città, non tolleravano di essere ritenuti popolari. Per ciò chiedevano dal senato di riconoscerli come ‘ordine civile’ e attribuirli prerogative quasi simili a quelli cittadini. Avevano l’intenzione dopo qualche anno se stessi, o i loro figli, di ottenere l’ammissione all’‘ordine dei cittadini’ e comportarsi come ‘nobili’.[22]

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4. ‘Regno

Venezia, nei tempi che aveva conquistato Creta / Candia (1209-1669) e Cipro (1489-1571), ripercorrendo gli antefatti di queste due importanti conquiste – alle epoche storiche più remote nel caso di Creta,[23] alla storia prima del 1478 in quello di Cipro[24]–, si vantava che in seno ai suoi domini fossero compresi anche due ‘regni’:[25] in tal modo, essa poteva pretendere di essere considerata sullo stesso piano delle monarchie europee. Dopo la perdita delle due isole, nel corso del trentennio in cui dominò il Peloponneso (1685-1715), il «Regno della Morea»,[26] usando il termine impessionante 'regno' e facendo riferimenti alla gloriosissima storia antica di questa peninsula, voleva proclamare la rilevanza della sua conquista e rappresantarsi di nuovo come notevole potenza europea. 

 


* Qui in italiano la relazione Y. Yannopoulos (Γ. Γιαννόπουλος), Η βενετική περιπέτεια των λέξεων comunità, repubblica, serenissima, dominante, cittadino, regno, in Η Πελοπόννησος κατά την Τουρκοκρατία και τη Βενετοκρατία (1460-1821), 3o Διεθνές Συνέδριο Ανατολικών και Αφρικανικών Σπουδών, Γαστούνη, 5-7 Σεπτεμβρίου 2008 (Αφιέρωμα στον ακαδημαϊκό Μιχαήλ Β. Σακελλαρίου) [L’avventura  ecc., in Il Peloponneso durante il dominio ottomano e veneziano (1460-1821), 3o Convegno Internazionale di Studi Orientali e Africani, Gastuni, 5-7 settembre 2008 (Omaggio al membro dell’Accademia di Atene Michaēl V. Sakellariou)]. Ne è imminente la pubblicazione negli atti del convegno in greco.
[1] P. D’Angelo, Storia dei concetti, in M. Cometa, Dizionario degli studi culturali, a cura di R. Coglitore, F. Mazzara, Roma, Meltemi, 2004, pp. 388-396.
[2] H.-G. Gadamer, Wahrheit und Methode. Grundzüge einer philosophischen hermeneutik, Tübingen, Mohr, 1960, p. 32 (citato da P. D’Angelo, art. cit., p. 392).
[3] Vedi M. Ascheri, Città-Stato e Comuni. Qualche problema storiografico, «Le carte e la storia. Rivista semestrale di storia delle istituzioni», 5, 1999, pp. 16-28, qui 28.
[4] M. Ascheri, Le città-Stato, Bologna, il Mulino, 2006, p. 7.
[5] N. Rubinstein, Le origini medievali del pensiero repubblicano del secolo XV, in Politica e cultura nelle repubbliche italiane dal Medioevo all’Età moderna. Firenze, Genova, Lucca, Siena, Venezia, a cura di S. Adorni-Braccesi, M. Ascheri, Atti del convegno, Siena 1997, Roma, Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, 2001, p. 5.
[6] Il diritto all’elezione del doge da parte dell’assemblea popolare fu trasferito a un comitato ufficiale che proponeva una sola candidatura, la quale equivaleva all’elezione: F. C. Lane, Venice. A maritime republic, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 1973, pp. 91-92.
  [7] G. Cozzi, M. Knapton, Storia della Repubblica di Venezia. Dalla guerra di Chioggia alla riconquista della Terraferma, Torino, utet, 1986, pp. 100-101; É. Crouset-Pavan, Venise triomphante. Les horizons d’un mythe, Paris, Albin Michel, 1999 (in italiano Venezia trionfante. Gli orizzonti di un mito, trad. di E. Pasini, Torino, Einaudi, 2001, p. 230: «Di fatto, quando nel XV secolo il termine ‘‘Comune’’ scompare dal vocabolario politico a vantaggio di quello di ‘‘Signoria’’, si può senza dubbio pensare che, oltre alla costituzione dello Stato terrtoriale, questi mutamenti semantici sanzionino il processo della aristocrazia»; D. Raines, L’invention du mythe aristocratique. L’image de soi du patriciat vénitien au temps de la Sérénissime, I, Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 2006 («Memorie dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Classe di scienze morali, lettere ed arti», CXII), p. 66.
  [8] Riguardo la formazione e il funzionamento dei ‘consigli cittadini’ e delle ‘comunità rurali’, vedi Y. Yannopoulos (Γ. Γιαννόπουλος), Τσιταντίνοι, οι snob της βενετικής περιφέρειας. Δοκίμιο εννοιολογικής και κοινωνικής ιστορίας, [Cittadini, gli snob della periferia veneta. Saggio di storia concettuale e sociale], Αθήνα, Παπαζήσης, 2011, pp. 151-422,   con relativa bibliografia.
[9] M. Berengo, Città italiana e città europea. spunti comparativi, in La demografia storica delle città italiane, relazioni e comunicazioni presentate al Convegno tenuto ad Assisi nei giorni 27-29 ott. 1980, Bologna, Cooperativa Libraria Universitaria Editrice, 1982, pp. 3-19. Estesamente, Idem, L’Europa delle città. il volto della società urbana tra Medioevo ed Età moderna, Torino, Einaudi, 1999, pp. XVI-1042.
[10] M. Ascheri, La città-Stato italiana. una vicenda storica conclusa?, «Kos. Rivista di medicina, cultura e scienze umane», 241, ottobre 2005, pp. 40-45,:qui, 45.
  [11] Veri e propri signori dello Stato veneziano non erano i dieci membri del supremo consiglio di rappresentanza statale, della ‘Signoria’, ma tutti i membri del Maggior Consiglio.
   [12] Cozzi, Knapton, op. cit., p. 101.
[13] Tra le prime edizioni, C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, ed. seconda riv. e corr., In Monaco [ma Firenze], Andrea Bonducci, 1764.
[14] Il brano è riportato da Ascheri, Le città-Stato, cit., p. 149.
[15] Rubinstein, art cit., p. 18.
[16] M. Ascheri, La Siena del Buon governo (1287-1355), in Politica e cultura nelle repubbliche italiane, cit., p. 84.
[17] B. Cavalcanti, Trattati sopra gli ottimi reggimenti delle repubbliche antiche e moderne, Milano, Societa tipografica de’ Classici italiani, 1805 (15551), pp. 1-3.
[18] G. Contarini, De magistratibus et republica Venetorum libri cinque, Parisiis, ex officina M. Vascosani, 1543.
[19] M. Casini, Note sul linguaggio politico veneziano del Rinascimento, in Politica e cultura nelle repubbliche italiane,  cit., p. 309.
[20] Yannopoulos, op. cit., pp. 361, 484.
[21] R. Cessi, Le origini del ducato veneziano, Napoli, Morano, 1951, pp. 323-339 (Le origini del patriziato veneziano); D. Raines, op. cit., I, pp. 567-569; R. C. Mueller, Espressioni di status sociale dopo la ‘serrata’ del Maggior Consiglio di Venezia, in Studi veneziani offerti a Gaetano Cozzi, a cura di G. Benzoni, M. Berengo, G. Ortalli, G. Scarabello, Venezia, Il Cardo, 1992, pp. 53-60. In merito alla caratterizzazione di veneti come nobili prima e dopo il 1297, cfr. quanto scrive Frederic C. Lane: «There were families which were considered noble because of their wealth, military services, ecclesiastical connections, and style of living. Although they had no well-defined legal privileges separating them from commoners, they were the leaders of political life and were at first accepted as representing the people, that is, the community» (Lane, op. cit., pp. 89-90). «Additional restrictions were climaxed by a clear declaration in 1323 that he had an ancestor who had held high posts in the Commune […] Thereafter, the old line between nobles and commoners disappeared. Membership in the Great Council became the basis for that distinction. All members of the Great Council were considered nobles, and nobility was viewed not a matter of personal life style, but as hereditary» (ivi, pp. 113-114).
   [22] Yannopoulos, op. cit., p. 295-320.
[23] Creta all’epoca della civiltà minoica (dal mitico re Minosse) probabilmente fosse organizzata in città-stato (periodo di massimo splendore: prima metà del secondo millennio a.C.).
[24] Nel Regno di Cipro della dinastia francese dei Lusignan (1192-1489).
  [25] F. Basilicata, Regno di Candia. atlante corografico di – – 1618, ripr. facs. del codice conservato al Museo Correr di Venezia, commento di D. Calabi, Venezia, Marsilio, 1993; F. Altomira, Narrazione della guerra di Nicosia, fatta nel regno di Cipro da’ Turchi l’anno 1570, In Bologna, per Biagio Bignami Bolognese, 1571.
  [26] V. M. Coronelli, Memorie istoriografiche del regno della Morea, riacquistato dall’armi della ser.ma republica di Venetia, di quello di Negroponte, e de’ litorali, In Venetia, Ruinetti, 1688. Il Peloponneso intero non fosse mai, in nessun periodo della sua storia, un regno. Solo città come Argos, Sparta, Pylos ecc. all’epoca della civiltà micenea (seconda metà del II millennio a.C.) erano ‘regni’.

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