Studi Veneziani 25 (2012), pp. 677-689.
L’AVVENTURA
VENEZIANA DELLE PAROLE
‘COMUNITÀ’,
‘REPUBBLICA’, ‘SERENISSIMA’,
‘DOMINANTE’,
‘CITTADINO’, ‘RENGO’*
Yannis Yannopoulos
Quello che conta non è Shakespeare,
ma i commenti a Shakespeare
Anton Čechov
A partire dalla metà del Novecento, alla
tradizionale storia dei concetti filosofici, di matrice soprattutto tedesca,
fece seguito una nuova storia dei concetti, che si diffuse, oltre che in
Germania, nei Paesi francofoni, anglofoni e ispanofoni. Le sue caratteristiche
principali andavano ravvisate nel superamento dei limiti della filosofia,
nell’interesse per la storia della cultura, per le scienze sociali e per le
scienze umane, nell’approccio critico ai concetti in rapporto al loro contesto
storico.[1] Come
osserva Hans-Georg Gadamer, che ne fu uno dei teorici, «chi non voglia
lasciarsi dominare dal linguaggio, ma si sforzi di acquistare una fondata
consapevoleza storica, si trova costretto ad affrontare tutta una serie
concatenata di problemi sulla storia delle parole e dei concetti».[2] Tenuto
conto di tali premesse, nelle pagine che seguono, verranno presi in esame
alcuni termini fondamentali della storia veneziana.
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1. ‘Comune’ / ‘Comunità’
Nell’Italia centrale e settentrionale, anche nell’Europa occidentale e
centrale, dalla fine dell’undicesimo e fino al quattordicesimo secolo, tutti i
gruppi sociali in ogni ‘città’ unirono le proprie forze allo scopo di
affrancarsi dal dominio imperiale tedesco. La possibilità dei maschi di una
città autonoma di partecipare agli organi collegiali di governo ed elegersi
alle diverse cariche, cioè di essere ‘cittadini’ veri, fu espressa con il
termine latino ‘commune’, in italiano ‘comune’, o anche con il termine
affine di ‘respublica’.[3] Il
termine ‘comune’ compare nelle fonti ufficiali verso la fine dell’undicesimo
secolo nella forma ‘commune’ nella città francese di Le Mans (1070) e
nella forma ‘communitas’ nella città italiana di Cremona (1078).[4] In una
traduzione latina, risalente all’incirca al 1143, dell’opera di Aristotele Etica Nicomachea, il termine greco ‘politeia’
(reppublica, regime democratico) fu tradotto con ‘communitas’.[5]
Venezia, pur
non seguendo in pieno tali campiamenti
istituzionali, non rimase immune dall’utilizzo della terminologia e dalle
istituzioni dell’epoca. Infatti, a partire dal 1143 si chiamava ‘commune
Veneciarum’ e accanto al doge fece la sua comparsa il consiglio dei
sapienti (‘consilium sapientum’), i cui decreti, e in particolare
l’elezione del nuovo doge, andavano ratificati dall’assemblea popolare
(‘concio’, ‘arengo’).[6] Nel
1297 tuttavia, dopo la chiusura (‘serrata’) del Maggior Consiglio, il regime veneziano
assunse un carattere prettamente aristocratico protrattosi cinque secoli, fino
alla caduta definitiva dello Stato nel 1797, benché la pratica della ratifica
popolare (‘collaudatio’) all’elezione del nuovo doge si prolungasse per
oltre un secolo per essere soppressa nel 1423, anno in cui Venezia cessò di
essere denominata ‘commune’.[7] Gli
organi di
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governo della
città dominante, tuttavia, quando si rivolgevano a una città sottomessa, per
dare l’impressione che nulla fosse mutato, non hanno smesso di usare il termine
identico ‘comunità’, benché il ‘consiglio della città’ non aveva poteri
governativi come prima e non rapresentava tutte le forze sociali della città.
Solamente per ‘statuto’ emanato dal senato veneziano i maschi membri di un
numero ridotto di famiglie in ogni città sottomessa erano riconosciuti come
l’‘ordine dei cittadini’ e come ‘consiglio dei cittadini’.
Ogni città
sottomessa, centro amministrativo periferico dello Stato, per darsi
l’impressione che nulla avesse cambiato, non cessò di nominarsi ‘comunità’
dalle autorità veneziane, e continuò a amministrarsi da un ‘rettore’ (di solito
chiamato ‘console’ o ‘podestà’), proprio come prima della conquista, quando
fosse ancora autonoma. Il ‘rettore’, tuttavia, non veniva nominato dal
consiglio della ‘città’ come prima. Era ‘nobile veneto’ scelto dal Maggior
Consiglio di Venezia di cui era membro anche lui. Lo eleggeva come
‘rappresentante’ dello Stato per un arco di tempo determinato, di solito un
biennio. Un documento ufficiale, la ‘commissione’ del Senato veneziano al
rettore, ne stabiliva le prerogative amministrative e giudiziarie. Il
‘consiglio della città’ non aveva più, come al tempo dei ‘Comuni’, poteri
governativi. Conservava soltanto responsabilità locali e le decisioni da esso
assunte erano prive di valore se alle sedute non era stato presente il rettore.
La ‘libertas’, concetto equivalente a quello di indipendenza, finché la
città era stata un ‘Comune’, era perduta. Criterio di accesso al consiglio di
un uomo nuovo erano le tre generazioni, i ‘tre gradi di civiltà’, nel senso che
il cantidato, come pure il padre e il nonno, dovevano avere la ‘città’ luogo di
residenza, e nessuno dei tre doveva aver mai esercitato alcun mestiere manuale
(‘arte mecanica’). Erano le autorità veneziane a sceglierlo, di regola dopo il
parere positivo espresso dal ‘consiglio dei cittadini’. La decisione era
soggetta a ra-
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tifica del
senato. I membri e i loro discendenti costituivano nel loro complesso, a vita,
il ‘consiglio generale’ della città. Questo si riuniva una volta l’anno per
eleggere il consiglio composto da un numero ristretto di membri, ad es.
150.
L’esistenza del
consiglio dei cittadini, che esercitava le funzioni cedute da Venezia, offriva
l’illusione che le procedure comunali / repubblicane continuassero a essere in
vigore, benché fossero molto diverse da quelle dell’epoca dei ‘Comuni’ o da
qualsiasi altra struttura che si possa considerare una comunità. Il termine
‘comunità’ sopravvisse con un significato improprio nell’intento di assimilare
il nuovo regime a quello comunale. L’esistenza di tre ‘ordini’ istituzionali,
con a capo il primo, quello dei ‘nobili veneti’, l’unico autorizzato a
modellare tali istituzioni, l’esclusione del secondo e del terzo dalle cariche
di governo, così come l’esclusione del terzo dai consigli dei centri periferici
dello Stato, cagionò la soppressione dei precedenti istituti comunali nelle
città sottomesse. Venezia permetteva soltanto la funzione di ‘comuni rurali’
con prerogative piuttosto differenti da regione a regione. Ad es., nel
distretto di Padova erano vasti, mentre a Creta e a Zante rudimentali.
La resa
letterale in greco del termine ‘comunità’, quando quest’ultimo concerne
‘città’, ‘quasi città’ (: ‘terre’ nelle fonti) o semplici ‘castelli’ della
terraferma veneta o di qualsiasi altro luogo, con il termine greco ‘koinotēs’
(: comune), il quale nella storiografia greca ha una lunga tradizione, è fonte
di malinteso, oltre che di connotazioni emotive e ideologiche alquanto distanti
dalla realtà. In ciascun centro distrettuale il ‘consiglio dei cittadini’
affrontava le questioni locali secondo il suo punto di vista, in primo luogo
per soddisfare i propri interessi. Venezia adattò alle proprie esigenze il
regime sussistente prima della conquista. in
ogni centro periferico l’ordine dei cittadini (per eccezione in ogni centro periferco
di Candia l’ordine dei nobili veneti e cretesi) e il loro consiglio
costituiscono istituzioni conformi a quelle esistenti a Venezia.[8]
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2. ‘Repubblica’, ‘Serenissima
Repubblica’, ‘Dominante’
Alcune città
dell’Italia centrale e settentrionale, quali Venezia, Firenze e Milano, nel
corso del Quattrocento e del Cinquecento si espansero con la forza delle armi,
mentre quelle tedesche con strumenti politici. Essendo ‘dominante’ ciascuna di
queste città italiane era e restava Capitale di Stato, mentre quelle tedesche
si trovavano sullo stesso piano delle città annesse.[9]
Al contrario, nelle città italiane sottomesse non entrò mai in vigore un regime
di vera parità. Nelle città italiane dominanti soltanto i cittadini veri e
propri godevano dei diritti politici, e si comportavano in modo più o meno
palese come padroni nei confronti di quelle sottomesse. In tal modo, la loro
identità di veneziani, fiorentini ecc. ne usciva rafforzata, così come,
peraltro, quella delle popolazioni sottomesse, nella maggior parte dei casi in
senso negativo, dal momento che erano stati esclusi dalle procedure che
riguardavano gli affari statali e dalle decisioni che prendeva la città
Capitale.[10]
A partire dal XV secolo, a Venezia, i nuovi termini ‘dominium’,
‘Signoria’,[11]
‘Serenissima Signoria’ e ‘Serenissima Repubblica’ indicavano «un particolare
organismo, avente determinate funzioni costituzionali»[12]
ed erano equivalenti al nuovo significato che la parola status / stato
(situazione) assunse, più tardi, ossia stato.
Venezia, come ‘Serenissima Repubblica’ (‘Serenissima’ si nominò anche Genova
dal 1551 grazie a un decreto imperiale), o semplicemente la ‘Serenissima’ per
antonomasia, propugnava e imponeva all’interno del suo dominio la concezione
fortemente ideologica che fosse Stato governato con eunomia avente alto senso
di responsabilità e di giustizia alle sue relazioni cogli altri Stati, le città
sottomesse e i suoi sudditi. questi
ultimi, così come i consigli cittadini dei centri periferici, si potevano
rivolgere alle autorità veneziane, sia locali sia centrali, per chiedere la
promul-
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gazione di eque sentenze giudiziarie o amministrative. Tuttavia, fino a che
punto Venezia come Stato, lungo tutti i secoli della sua durata, fosse ben
governata e fino a che punto gli organi competenti prendessero decisioni con
coscienza limpida e serena, ovviamente non si può dire con un sì o no. I sudditi, quando
presentavano le proprie istanze alle autorità veneziane, chiamavano Venezia
‘Serenissima Repubblica’. Ma quando Cesare Beccaria negli anni sessanta del
Settecento pubblicò il suo celebre Dei
delitti e delle pene,
nell’intento di sottoporre a critica feroce i sistemi giudiziari della sua
epoca, egli aveva in mente soprattutto come caso negativo l’esempio veneziano.[13]
Pertanto, quando gli studiosi oggi scelgono la denominazione antonomastica di
‘Serenissima’ per denominare Venezia e lo Stato veneziano, per ragioni
soprattutto di varietà stilistica, essi ripropongono, sia pure senza volerlo,
una formulazione ideologica che habbia un giudizio forte di valore, ripetendo a
distanza di secoli, in modo anacronistico, l’ideologia veneziana dominante.
Così, senza una presentazione minima del regime istituzionale vigente, il
destinatario del messaggio non sospettoso assume un atteggiamento
inconsciamente favorevole a tale regime.
Lo stesso
accade con il termine ‘repubblica’, la quale può essere intesa come sistema
politico in cui tutti direttamente o indirettamente partecipano alla presa di
decisioni. Per ciò, senza nessun riferimento al significato vero della parola,
in greco ‘repubblica’ viene tradotta con ‘dēmokratia’ (democrazia). Il
termine ‘repubblica’ (dal latino ‘res
publica’) assunse il suo
significato originario nell’antica Roma, ove il potere era in qualche modo
suddiviso tra il Senato e il popolo («senatus populusque romanus»).
Nell’antica Repubblica romana, peraltro, gli aspetti democratici non erano
quelli prevalenti. L’evidente supremazia del ‘Senato’, infatti, conferiva a
tale regime un carattere aristocratico. Al contrario, nel tardo Medioevo e agli
albori dell’età moderna, all’epoca dei ‘Comuni’ e anche più tardi in alcune
città, ad es. a Firenze, a prevalere furono veri e propri istituti
democratici. Nel 1438 Gianfrancesco Poggio Bracciolini, noto intellettuale al
servizio di Firenze, scriveva in proposito al duca di Milano:
La nostra Reppublica non è governata né da alcuni cittadini, né dagli
aristo-
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cratici, ma tutto il popolo è ammesso con uguale diritto alle cariche
pubbliche; questo fa sì che i cittadini grandi e i cittadini semplici, i nobili
e i non nobili siano uniti nel servire la libertà e per difenderla non cercano
di evitare le spese, né temono le fatiche».[14]
I criteri per
la scelta di un candidato alle cariche avevano più a che fare con il
riconoscimento, il prestigio (dignitas) e con la virtù, che con la
ricchezza o con il lignaggio del cittadino.[15]
Nel contempo,
sin dall’inizio del Trecento il campo semantico del termine ‘repubblica’ si è
ampliato. Assunse significati più vasti e generici di quelli originari, fino a
indicare qualsiasi sistema politico, compresa la monarchia. Dicevano «res
publica imperii», «res publica regni nostri».[16]
Bartolo Cavalcanti (1503-1562), studioso di Platone, di Aristotele e di
Polibio, nella sua opera Trattati sopra
gli ottimi reggimenti delle repubbliche antiche e moderne chiama
‘repubbliche’ i diversi regimi politici (forme di governo) descritti da Platone
e ‘repubbliche miste’ i regimi della sua epoca.[17]
Il termine ‘repubblica’ continuò a essere
usato anche a Venezia, ove soltanto i ‘nobili veneti’ godevano dei diritti
politici veri e propri. In qualche modo, esprimeva il carattere peculiare del
sentimento repubblicano veneziano: i ‘nobili veneti’, nelle cui mani era
concentrato per intero la facoltà di governare, eleggevano ai consigli di governo
e alle cariche pubbliche soltanto loro pari mediante votazione, ossia per le
procedure comuni nei regimi democratici. Ciononostante, il regime istituzionale
veneziano non era democratico ma bensì aristocratico. Per ben cinque secoli,
membri del supremo organo governativo dello Stato, del ‘Maggior Consiglio’,
furono soltanto i nobili, ossia pochi abitanti della città, da un minimo di 1.000 a un massimo di 2.500 a seconda dei periodi. E soltanto i
membri del Maggior Consiglio potevano aspirare ad accedere ai consigli
governativi e a tutte le altre cariche (‘magistrati’, comunemente ‘offici’) di
Venezia e dei distretti periferici. Gli altri 'cittadini', sia nella città
dominante sia nei centri dei distretti (territori e provincie) dello Stato, non
avevano
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delegati nel
Maggior Consiglio e non venivano eletti a nessuna carica destinata per i
‘nobili veneti’ membri del Maggior Consiglio di Venezia, neppure la più
insignificante, né nel centro né nei distretti. Non a caso, secondo Gasparo
Contarini, il teorico più autorevole, la forma istituzionale dello Stato
veneziano era «mista»:[18] il
doge costituiva l’elemento monarchico, il Senato quello aristocratico e il
Maggior Consiglio quello democratico/repubblicano. In modo analogo, lo studioso
nostro contemporaneo Matteo Casini osserva che furono gli autori veneziani, e
non solo, di quell’epoca a propagandare il mito rinascimentale della
‘Serenissima Repubblica’, come modello ideale dell’esperienza politica e
istituzionale[19]. Ecco
perché è del tutto fuorviante tradurre in greco l’espressione ‘Repubblica di
Venezia’ come ‘dēmokratia tēs
Venetias’, e ancor più lo è denominarla ‘Galēnotatē Dēmokratia’
(‘Serenissima Democrazia’, nel senso stretto di ‘repubblica’).
Talora Venezia,
anche in questo caso per antonomasia, viene denominata ‘Dominante’. Il termine
in alcuni casi si usa in modo che fa sfugire la realtà. Non si da la
possibilità di prendere coscienza che dominante fosse la città (l’ordine
dominante dei ‘nobili veneti’), che aveva il potere di governare luoghi e
uomini. Le denominazioni per antonomasia hanno in genere un suono gradevole,
spesso però risultano fuorvianti per il destinatario del messaggio, quando
l’utilizzo del termine e il contesto globale bloccano la possibilità di capire
il peso di tale dominio.
A maggior
ragione, i consigli cittadini dei ‘territori’ del Peloponneso nel trentennio
1685-1715 o il consiglio dei cittadini di Zante nel Settecento esageravano nel
pretendere che Venezia riconoscesse i suoi terittori come ‘repubbliche’, in
virtù del fatto che lo stato
veneziano li assegnò il diritto di prendere decisioni per questioni
strettamente locali.[20] Oltre
alle altre argomentazioni, le competenze dei consigli cittadini nei distretti
periferici non erano sufficienti a giustificare l’uso di questo termine.
Infatti, anche quando le autorità veneziane non riuscivano a esercitare con
efficacia il potere amministrativo e giudiziario, i suddetti consigli non per
questo cessavano di essere or-
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gani
distrettuali soggetti alla città dominante, privi di giurisdizioni governative.
In altre parole, non si trattava di regimi autonomi dotati di poteri di
autogoverno, di istituzioni comunali / repubblicane degne di questo nome. Lo stato veneziano non era uno stato federale moderno.
3. ‘Cittadini’
Fino al 1297,
anno della serrata del Maggior Consiglio, ogni veneziano, grazie ai privilegi di cui godeva, se era veneziano vecchio o residente in città
da molti anni, era ‘cittadino’ (‘civis’), dal momento che partecipava
all’assemblea (‘concio’ o ‘arengo’) del ‘comune’. Questo corpo non equivaleva
all’assemblea del popolo (‘ekklēsia tou dēmou’) nell’antica Atene, ove
venivano assunte le decisioni finali. A Venezia l’assunzione delle decisioni
politiche spettava agli organi dello Stato e l’assemblea aveva un carattere più
che altro formale. Tuttavia, dal momento che la sua convocazione veniva sia per
la ratificazione (‘collaudatio’), allo scopo di garantire la maggior
legittimità possibile alle decisioni, sia l’assunzione di impegni, tutti i
gruppi sociali della ‘città’ erano coinvolti in qualche modo nella gestione
della res publica.
Dopo il 1297
tuttavia, e di più nei decenni successivi, benché l’assemblea popolare fu
formalmente soppressa soltanto nel 1423, più perché ritenuta ormai un fastidio
che a causa dei reali poteri di cui godeva, in modo chiaro ormai veri ‘cives’
/ ‘cittadini’, come si compiacevano di sostenere loro stessi, con il diritto
attivo e passivo di elezione alle cariche pubbliche e di formare le
istituzioni, furono soltanto i membri del Maggior Consiglio. E benché a partire
dalla seconda metà del Duecento era prassi che il titolo di ‘vir nobilis’
fosse concesso soltanto a coloro che ricoprivano cariche pubbliche (secondo la
tradizione bizantina) o feudali (secondo la tradizione longobarda), a partire
dal 1297, o meglio dopo il 1323, tutti i membri del maggior consiglio
assumevano il titolo perpetuo di nobile, esteso a tutti i componenti, maschili
e femminili, e ai discendenti delle rispettive famiglie. Il titolo era
all’altezza del loro ruolo politico e corrispondente in tutto con la
denominazione e le coeve gerarchie sociali vigenti in Europa. In seguito alla
serrata del Maggior Consiglio, avvenuta nel 1297 e completatasi negli anni
successivi, i ‘nobili veneti’ si imposero dal punto di vista giuridico e
sociale come ‘ordine’ (gruppo sociale esteso con privilegi
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precisi
ereditari) dominante e la società della città di Venezia e di tutto lo Stato
assunse una struttura rigidamente gerarchizzata.[21]
A partire da
quel tempo, a Venezia, i ‘nobili’ – ossia, una percentuale assai ridotta degli
abitanti della città – salvaguardarono pienamente le prerogative legate al loro
status di cittadini. Quanti in futuro sarebbero stati definiti ‘cittadini’, si
distinguevano in gruppi diversi in base ai privilegi concessi loro dai nobili.
Costoro, a dispetto del nome, non avevano il diritto attivo e passivo di
elezione alle cariche di governo o, meglio, non avevano diritti politici
completi. I nomi hanno la loro storia e a volte continuano a essere utilizzati
anche quando se ne modifichi il contenuto.
Nello Stato
veneziano dopo il ‘primo ordine dei nobili’, tutti insieme i diversi gruppi di
‘cittadini’ costituivano il ‘secondo ordine dei cittadini’ e, dopo di loro,
tutto il popolo, la maggior parte della popolazione in Venezia e nella
periferia veneziana, fosse il ‘terzo ordine del popolo, dei popolari’. I gruppi
del ‘secondo ordine dei cittadini’ erano quattro, i seguenti: i ‘cittadini
originari veneti’, cioè le famiglie venete che, pur distinguendosi da molte altre,
non furono giudicate degne di accedere al Maggior Consiglio; tali famiglie, dal
punto di vista delle prerogative economiche, erano di pochissimo inferiori ai
nobili, così come del resto erano di poco superiori al secondo gruppo di
cittadini aventi il diritto di commerciare dentro e fuori Venezia (‘cittadini
de intus et de extra’). Un terzo gruppo di cittadini era formato da quanti
avevano il diritto di commerciare soltanto all’interno di Venezia (‘cittadini
de intus tantum’). Infine, il quarto gruppo era quello costituito da quan-
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ti avevano
avuto accesso come cittadini, all’inizio o in un secondo tempo, ai consigli dei
centri distrettuali periferici, di ‘città’, ‘terre’ o ‘castelli’ che fossero
capitali di territori e di provincie veneziane. Dei gruppi suddetti, a partire
dal Trecento, i ‘cittadini originari veneti’, più lentamente all’inizio e poi
sempre più rapidamente, acquisirono il privilegio di accedere all’apparato
burocratico veneziano e diventare segretari dei più alti consigli governativi
dello Stato. Diverse erano le competenze dei membri dei consigli distrettuali:
potevano riunirsi e prendere in consiglio solo sotto la presidenza del
‘rettore’ che era sempre ‘nobile veneto’ decisioni valide per la risoluzione di
problemi locali, le quali Venezia poteva respingere; avevano pure il diritto di
trasmettere le proprie istanze al centro per mezzo di ambascerie e di eleggere
loro pari in cariche di giurisdizioni locali (non governative) espressamente
previste dall’atto di dedizione o da statuto posteriore del Senato. Questi
posti erano i più bassi del sistema amministrativo statale. Venezia non
aveva mai attribuito il titolo del ‘nobile’ ai ‘cittadini’ del centro e dei centri
distrettuali periferici. Le famiglie dei centri distrettuali che potevano vantarsi
di essere ‘nobili’ prima della conquista veneziana della loro ‘città’ e i
cittadini ai qualli era stato attribuito il titolo onorifico di ‘conte’ per
meriti speciali o in cambio di una somma specifica, dopo aver ceduto una
notevole estensione di terreno allo Stato, che in seguito venne loro assegnata
a titolo di possesso feudale, partecipavano in modo paritario ai consigli
insieme agli altri ‘cittadini’. Ciononostante, in ogni distretto tutti i
‘cittadini’ insistevano a presentarsi come ‘nobili’. Ma per quanto
desiderassero con tutte le loro forze l’attribuzione del titolo, i ‘nobili
veneti’ si rifiutarono strenuamente fino alla fine, fino al 1797, di concedere
loro per ‘statutο’ un titolo adatto per uomini liberi che avevano il privilegio
di partecipare al governo dello Stato. Per questo i ‘cittadini’, nonostante il
nome, non riuscirono mai ad acquisire reali prerogative politiche e nobiliari.
Nella
bibliografia non è tanto chiaro che cosa erano precisamente i ‘cittadini’ delli
centri periferici veneziani. Sono state avanzate tre proposte diverse: gli
studiosi rimasti fedeli alla tradizione creata dagli stessi ‘cittadini’ dei
centri periferici, nelle fonti hanno letto, e leggono ancor oggi, la parola
‘cittadini’ interpretandola senza alcuna esitazione nel senso di nobili, meno
arbitrariamente di quanto si pensi, dal momento che esistono fonti prodotte dai
‘cittadini’, nelle quali si au-
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todefiniscono
‘nobili’. Altri invece in Grecia, traducono ‘politēs’ (‘cittadino’),
sebbene oggi il significato del termine greco, anche dell’italiano, sia
diverso. Una terza categoria di studiosi preferisce affrontrare i ‘cittadini’
quasi come ‘borghesi’.
In tutti e tre
i casi ci troviamo di fronte a un problema. I ‘cittadini’ non si possono
considerare ‘nobili’, benché essi stessi ci tenessero a essere considerati
tali. Né veri e propri ‘cittadini’, come li intendiamo oggi. Infine, anche il
termine ‘borghesi’ non è adatto a descrivere la realtà, in quanto rinvia a una
specifica ‘classe’ sociale, le cui caratteristiche non coincidono con l’‘ordine
dei cittadini’. Il nucleo di quest’ultimο era costituito da possessori di
‘feudi’, o almeno da proprietari di beni immobili rurali e urbani, di persone
che di solito evitavano l’investimento dei propri capitali in iniziative
imprenditoriali a considerevole rischio. E per quanto riguarda quelli che si
possono considerare dotati di caratteristiche borghesi, come degli ‘avvocati’,
dei ‘notai’, dei ‘medici’, degli ‘imprenditori’ e altri, non erano annoverati
tra i membri più forti del loro ‘ordine’ e, quel che più conta, non avevano
sviluppato qualche ‘coscienza di classe’ particolare, poiché volevano chiamarsi
‘nobili’ e non ‘cittadini’. Infine, la traduzione in greco del termine
‘cittadino’ letteralmente, come pure l’uso in italiano senza nessun riferimento
al suo diverso significato odierno, non è una soluzione soddisfacente.
Necessaria è la determinazione intera del ruolo politico e sociale del
‘cittadino’ come membro del ‘secondo ordine’ nello Stato veneziano, anziché
renderlo semplicemente con il termine greco ‘politēs’ (: ‘cittadino’)
nel senso moderno, che resta nel vago e genera perplessità che cosa erano
questi...‘cittadini’.
I membri di
un’altro gruppo sociale, che tipicamente appartenevano al ‘terzo ordine’,
appaiono nelle fonti del Seicento e Settecento come ‘civili’. Uomini nuovi,
dottori in giurisprudenza o in medicina, impreditori e altri, vivendo in un
livello abbastanza alto in città, non tolleravano di essere ritenuti popolari.
Per ciò chiedevano dal senato di riconoscerli come ‘ordine civile’ e
attribuirli prerogative quasi simili a quelli cittadini. Avevano l’intenzione
dopo qualche anno se stessi, o i loro figli, di ottenere l’ammissione
all’‘ordine dei cittadini’ e comportarsi come ‘nobili’.[22]
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4. ‘Regno’
Venezia, nei tempi che aveva conquistato Creta / Candia (1209-1669) e Cipro (1489-1571), ripercorrendo gli antefatti di queste due importanti conquiste – alle epoche storiche più remote nel caso di Creta,[23] alla storia prima del 1478 in quello di Cipro[24]–, si vantava che in seno ai suoi domini fossero compresi anche due ‘regni’:[25] in tal modo, essa poteva pretendere di essere considerata sullo stesso piano delle monarchie europee. Dopo la perdita delle due isole, nel corso del trentennio in cui dominò il Peloponneso (1685-1715), il «Regno della Morea»,[26] usando il termine impessionante 'regno' e facendo riferimenti alla gloriosissima storia antica di questa peninsula, voleva proclamare la rilevanza della sua conquista e rappresantarsi di nuovo come notevole potenza europea.
* Qui in
italiano la
relazione Y. Yannopoulos (Γ. Γιαννόπουλος), Η βενετική περιπέτεια των
λέξεων comunità, repubblica, serenissima, dominante, cittadino, regno, in Η
Πελοπόννησος κατά την Τουρκοκρατία και τη Βενετοκρατία (1460-1821), 3o Διεθνές Συνέδριο Ανατολικών και Αφρικανικών Σπουδών, Γαστούνη, 5-7 Σεπτεμβρίου
2008 (Αφιέρωμα στον ακαδημαϊκό Μιχαήλ Β. Σακελλαρίου) [L’avventura ecc., in Il Peloponneso durante il dominio ottomano e veneziano
(1460-1821), 3o Convegno
Internazionale di Studi Orientali e Africani, Gastuni, 5-7 settembre 2008
(Omaggio al membro dell’Accademia di Atene Michaēl V. Sakellariou)]. Ne è imminente la
pubblicazione negli atti del convegno in greco.
[1] P. D’Angelo,
Storia dei concetti, in M. Cometa, Dizionario degli studi
culturali, a cura di R. Coglitore, F. Mazzara, Roma, Meltemi, 2004, pp.
388-396.
[2] H.-G. Gadamer, Wahrheit und
Methode. Grundzüge einer philosophischen hermeneutik, Tübingen, Mohr, 1960, p. 32 (citato da P. D’Angelo, art. cit., p. 392).
[3] Vedi M. Ascheri,
Città-Stato e Comuni. Qualche problema storiografico, «Le carte
e la storia. Rivista semestrale
di storia delle istituzioni», 5, 1999, pp.
16-28, qui 28.
[4] M. Ascheri,
Le città-Stato, Bologna, il Mulino,
2006, p. 7.
[5] N. Rubinstein,
Le origini medievali del pensiero repubblicano del secolo XV, in Politica e cultura nelle repubbliche
italiane dal Medioevo all’Età moderna. Firenze, Genova, Lucca, Siena, Venezia,
a cura di S. Adorni-Braccesi, M. Ascheri, Atti del convegno, Siena 1997, Roma,
Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, 2001, p. 5.
[6]
Il diritto all’elezione del doge da parte dell’assemblea popolare fu trasferito
a un comitato ufficiale che proponeva una sola candidatura, la quale equivaleva
all’elezione: F. C. Lane, Venice. A
maritime republic, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 1973, pp. 91-92.
[9] M. Berengo,
Città italiana e città europea. spunti
comparativi, in La demografia storica
delle città italiane, relazioni e comunicazioni presentate al Convegno
tenuto ad Assisi nei giorni 27-29 ott. 1980, Bologna, Cooperativa Libraria
Universitaria Editrice, 1982, pp. 3-19. Estesamente, Idem, L’Europa delle
città. il volto della società
urbana tra Medioevo ed Età moderna, Torino, Einaudi, 1999, pp. XVI-1042.
[10] M. Ascheri,
La città-Stato italiana. una
vicenda storica conclusa?, «Kos. Rivista di medicina, cultura e scienze
umane», 241, ottobre 2005, pp. 40-45,:qui, 45.
[11] Veri e propri signori dello Stato veneziano non erano
i dieci membri del supremo consiglio di rappresentanza statale, della
‘Signoria’, ma tutti i membri del Maggior Consiglio.
[13] Tra le prime edizioni, C. Beccaria, Dei delitti e
delle pene, ed. seconda riv. e corr., In Monaco [ma Firenze],
Andrea Bonducci, 1764.
[14] Il brano è riportato da Ascheri, Le città-Stato,
cit., p. 149.
[15] Rubinstein,
art cit., p. 18.
[16] M. Ascheri,
La Siena del Buon governo (1287-1355), in Politica e cultura nelle repubbliche italiane, cit., p. 84.
[17] B. Cavalcanti,
Trattati sopra gli ottimi reggimenti
delle repubbliche antiche e moderne, Milano, Societa tipografica de’
Classici italiani, 1805 (15551), pp. 1-3.
[18] G. Contarini,
De magistratibus et republica Venetorum
libri cinque, Parisiis, ex officina M. Vascosani, 1543.
[19] M. Casini,
Note sul linguaggio politico veneziano del Rinascimento, in Politica e cultura nelle repubbliche
italiane, cit., p. 309.
[20] Yannopoulos,
op. cit., pp. 361, 484.
[21] R. Cessi,
Le origini del ducato veneziano,
Napoli, Morano, 1951, pp. 323-339 (Le origini del patriziato veneziano); D. Raines, op. cit., I, pp. 567-569;
R. C. Mueller, Espressioni di
status sociale dopo la ‘serrata’ del Maggior Consiglio di Venezia, in Studi veneziani offerti a Gaetano Cozzi,
a cura di G. Benzoni, M. Berengo, G. Ortalli, G. Scarabello, Venezia, Il Cardo,
1992, pp. 53-60. In merito alla caratterizzazione di veneti come nobili prima e dopo il 1297, cfr. quanto scrive
Frederic C. Lane: «There were families which were considered noble because of
their wealth, military services, ecclesiastical connections, and style of
living. Although
they had no well-defined legal privileges separating them from commoners, they
were the leaders of political life and were at first accepted as representing
the people, that is, the community» (Lane, op. cit., pp. 89-90). «Additional restrictions were
climaxed by a clear declaration in 1323 that he had an ancestor who had held
high posts in the Commune […] Thereafter, the old line between nobles and
commoners disappeared. Membership in the Great Council became the basis for
that distinction. All members of the Great Council were considered nobles, and
nobility was viewed not a matter of personal life style, but as hereditary»
(ivi, pp. 113-114).
[23] Creta all’epoca
della civiltà minoica (dal mitico re Minosse) probabilmente fosse organizzata
in città-stato (periodo di massimo splendore: prima metà del secondo millennio
a.C.).
[24] Nel Regno di Cipro della dinastia francese dei
Lusignan (1192-1489).
[25] F. Basilicata, Regno di Candia. atlante corografico di – – 1618,
ripr. facs. del codice conservato al Museo Correr di Venezia,
commento di D. Calabi, Venezia, Marsilio, 1993; F. Altomira, Narrazione della guerra di Nicosia, fatta
nel regno di Cipro da’ Turchi l’anno 1570, In Bologna, per Biagio Bignami
Bolognese, 1571.
[26] V. M. Coronelli, Memorie istoriografiche
del regno della Morea, riacquistato dall’armi della ser.ma republica di
Venetia, di quello di Negroponte, e de’ litorali, In Venetia, Ruinetti,
1688. Il Peloponneso intero non fosse mai, in nessun periodo della sua storia,
un regno. Solo città come Argos, Sparta, Pylos ecc. all’epoca della civiltà
micenea (seconda metà del II
millennio a.C.) erano ‘regni’.
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